Compiti: finte ragioni, vere ossessioni

Pubblicato da Redazione Basta Compiti! il

NON SONO CONTRARIA AI COMPITI PER PRINCIPIO: SONO CONTRARIA AL PRINCIPIO PER CUI LA SCUOLA SI APPROPRI DI TEMPO NON SUO

Una mamma legge delle mie discussioni sui compiti a casa nella scuola a tempo pieno. Commenta: «Sono ancora temporalmente lontana da queste questioni, ma solo a leggere i racconti di certe dinamiche mi si accappona la pelle… Vi chiedo: cosa succede se si decide di non piegarsi a questo sistema sbagliato di creare piccoli soldati? Cioè… Cosa succede se i bimbi vanno a scuola senza compiti fatti?»

Ci sono insegnanti che hanno un bellissimo animo. Va detto. Però la definizione che dai, cara mamma, di «piccoli soldati», ha purtroppo un fondamento di verità.

La scuola è rimasta ai tempi dell’industrializzazione, nei quali il solo scopo era formare burattini tutti uguali e operosi per le catene di montaggio. Al suono della campanella tutti ai posti, tutti con la loro divisa! Non si è mossa di molto. Si pavoneggia in immagini colorate sui libri (che però da uno o due sono diventati sei o sette), attecchisce su terreni informatici come una pianta moderna, aggiunge progetti spesso davvero interessanti (di questo do atto), ma nei fatti non ha minimamente superato la vecchia organizzazione. Basti pensare alla disposizione dei banchi e della cattedra, alle correzioni a penna rossa, ai voti.

Perché questo? Perché

l’uniformità è facile, gestibile, prevedibile. La diversità fa paura, è perdita di controllo e di tempo, è rischio di anarchia.

Lo scopo non è tanto valorizzare il singolo, ma portare la massa-classe a finire il Programma.

Perché i compiti?

Allo stesso, infausto principio, obbedisce l’obbligo dei compiti. Questi vengono assegnati per quattro ragioni:

  1. «Studiare ed esercitarsi a casa è indispensabile per fissare le conoscenze». Può darsi: malauguratamente non tutto è possibile nella vita. Se li tieni a scuola otto ore, il tempo dedicato allo studio l’hai già esaurito.
    L’equazione è semplice: giornata bimbi = mattino a scuola + pomeriggio di gioco e qualche compito. Ma se il pomeriggio è a scuola?Voglio vedere se di fisso, a un adulto lavoratore e senza che gli si paghino gli straordinari, quando arriva a casa dopo otto ore si chiedesse di trovare il tempo di farne almeno una in più, «liberamente tratta».
  2. «Si è sempre fatto così». Credimi, anche le insegnanti più brave mancano di audacia. Anche le più appassionate hanno in sé la religione dei compiti a casa. Spesso si tratta di insegnanti con grande esperienza e davvero innamorate, ma incapaci di accettare che le cose sono cambiate, che anni fa i compiti si davano ma non c’era il tempo pieno, e che in ogni caso da allora le ricerche hanno dimostrato che non esiste alcuna provata efficacia nella loro assegnazione, anzi esistono prove contrarie:
    i compiti e le lezioni da studiare, invadendo lo spazio libero del bambino fuori da scuola, vengono percepiti come ingerenza e portano a ribellarsi allo studio. Perché, per fortuna, un bambino sente che gli si sta togliendo qualcosa di suo.
  3. «Gli allievi devono essere tutti preparati».
    Tutti preparati o… tutti uguali?Mi è già accaduto diverse volte che una maestra cui ostentavo la mia reticenza ai compiti a casa mi dicesse: «C’è chi non è ancora al livello del resto della classe, e deve rinforzare quanto appreso. Quindi ha bisogno di esercitarsi a casa. E io non posso fare differenze, capisce? Quindi a quel punto gli stessi esercizi li do a tutti». La soluzione sarebbe ammettere le differenze. Insegnare il rispetto delle stesse. Valorizzare: perché chi è scemo nelle addizioni, magari è un fico a basket. Ma, di nuovo, uniformare è gestire, è avere obbedienza e controllo. Lo insegna la storia, la moda, la tirannia.
  4. I genitori: spesso sono i genitori a volere i compiti, preoccupati solo che il figlio studi il più possibile. Un po’ perché «meglio i compiti che la play station», un po’ perché c’è crisi, gente.
    Vogliono un figlio superman. Dimenticano che un superman nasce da un superkid. E un superkid deve essere innanzitutto un kid. Un BAMBINO.Non una realizzazione del genitore. Non una realizzazione del sistema, non il compimento di un Programma Scolastico.

Ma allora come si fa?

Scegli una scuola non a tempo pieno, se possibile. Per noi non lo è stato. Per noi, qui a Milano, sul sito di quella di zona campeggiava la possibilità di scelta dell’orario: uscita alle 12.30 oppure 14.30 oppure 16.30. Così sembra che tutti abbiamo i nostri diritti. Infatti ho scelto 14.30. Ma in anni e anni nessuno è mai uscito da quella scuola alle 14.30. Anche in quelle intorno gli orari sono gli stessi. Tutti vanno a tempo pieno, è così, va bene, ce la faremo, ho pensato.

E infatti siamo vivi. Il problema è cosa vogliamo per i nostri figli. Il problema è quali valori vogliamo trasmettere e come. Confrontarsi e scontrarsi con maestri e genitori, spingere e sperare che cambi il «Sistema» e, intanto, volere il meglio per il proprio figlio. Come tutte, d’altronde. Solo che il «meglio» che intendo io è diverso dal «meglio» che intendi tu: mentre la scuola è una, è quella, è per tutti. .

Qui c’è quello che ho fatto io

Per me il problema va ben al di là dei compiti, va proprio nella direzione di troppa ricerca di efficientismo e poco sviluppo di creatività, movimento, desiderio, sogno e scambio. Ma se a queste attività non posso delegare i pomeriggi perché i pomeriggi sono spesi in gran parte a scuola, allora cominciamo col salvare il salvabile, cioè eliminare i compiti.

  • Mi sono iscritta quindi alla pagina Basta compiti! e ho firmato la petizione che spinge verso una riforma. Ho dato il mio contributo finanziario alla realizzazione del video-documentario che cerca di promuovere una scuola senza compiti.
  • Diffondo la mia opinione attraverso il blog e i canali social, i gruppi di Facebook: trovo esperienze simili alla mia, trovo chi non è d’accordo, ma anche chi magari incomincia a interrogarsi.
  • Ho mandato una mail ai genitori dei compagni di mio figlio. Cui nessuno ha risposto.
  • Ho espresso chiaramente la mia posizione con ogni insegnante, e non manco occasione di farlo.
  • Più di una volta li ho ulteriormente sensibilizzati scrivendo sul diario di un figlio: «Ha fatto i compiti in lacrime ed è terrorizzato perché non è riuscito a finirli. Credo che fatti così non siano né utili né educativi».

Ma come porsi coi figli?

I figli sono in mezzo. Non posso mandarli a scuola senza compiti per una mia personale battaglia. Non posso nemmeno lasciare che li facciano unicamente per terrore d’esser sgridati o di sbagliare, né farli io al posto loro così vanno coi compiti fatti. Infine: non posso e non voglio, come mamma e come essere umano, predicare qualcosa che aborrisco.

Considero diseducativo e doppiamente fallimentare un sistema che dopo otto ore a scuola si estende d’obbligo anche agli spazi privati: imporre sacrificio e studio negli spazi personali significa spegnere la sete di conoscenza, e sottrarre o screditare il valore di questi spazi e delle attività che questi possono ospitare, mancando così di rispetto ai ragazzi. Alla fine si svilisce lo studio e la persona.

Non posso e non voglio difendere questo modello: altrimenti mi rendo complice.

Quindi dico la verità:

«Io non sono d’accordo coi compiti e lo studio a casa. State a scuola abbastanza ore da potervi esercitare là. Fuori da scuola è il vostro tempo. Sto cercando di fare in modo che li riducano o li eliminino. Nella vita ci sono tante cose che non piacciono e che vanno migliorate. Che non sono ancora state capite. Ma finché non riusciamo a cambiarle, e se sei così spaventato di non farli, allora è bene che tu li faccia. Finché ci sono, purtroppo bisogna farli».

Li invito a organizzarsi, a non ridursi alle otto di sera. Ma non li sgriderò mai se sono stati a giocare o a fare sport e alla sera sono stanchi per studiare.

La scuola ha la sua priorità, mica dico il contrario: ce l’ha nelle sue otto ore quotidiane.

Lascio che studino da soli, se c’è qualcosa che non capiscono devono imparare a chiedere alla maestra. Devono superare questa paura folle di sgarrare, di farsi trovare in fallo: perché è questo, il motore principe.

Li aiuto sicuramente se sono stati assenti e quindi davvero non capiscono qualcosa perché hanno mancato la lezione. E li giustifico se non hanno finito i compiti perché il libro era rimasto a scuola, o perché abbiamo fatto una gita al lago. Li giustifico per mille ottime ragioni. Eppure accade di rado, sono tra i migliori allievi della scuola, gli insegnanti non fanno che complimentarsi. Sono educati, disciplinati a lezione, attenti e anche partecipativi.

Ma sono assolutamente condizionati dalla paura. Vorrebbero essere esonerati, ma nel momento in cui io dico «va bene, ti faccio la giustifica», ribattono: «No, perché comunque la maestra si arrabbia con me. È me che sgrida».

Logicamente sarei solo felice di vederli aprire i quaderni e fare esercizi perché entusiasti, curiosi per quello che hanno imparato. Ma

l’obbligo oltre il dovuto è la tomba della passione e della dedizione.

Mio figlio a dieci anni si guarda i documentari di National Geographic, uragani, disastri aerei, terremoti che gli dico di spegnere quando arriva la più piccola. Legge di tutto, divora. Capita già che mi sbaragli sfoderando conoscenze che io stessa non ho.

Ma la sera capita anche, ancora, che pianga su un eserciziario.


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